Intervista di Micol Barba, Editor in Chief di The Procurement Magazine, a Alberto Mattiello, futurist, autore, imprenditore e keynote speaker, comparsa sul primo numero 2020 “Tecnologie e nuove competenze” di The Procurement Magazine.
Dal caldo sole di Miami, dove si trovava alcune settimane fa, quando l’ho contattato la prima volta, al rigido freddo di Riga, in occasione di questa intervista via WhatsApp. “Sto camminando in un bosco, poco lontano da casa”, esordisce al telefono Alberto Mattiello, cervello itinerante più che in fuga, come già acutamente definito da qualcuno. Accompagnandolo idealmente in questa sua passeggiata, una piccola fortuna liberatoria in tempo di Covid-19, la conversazione esordisce inevitabilmente con alcune considerazioni su questa emergenza globale e sui futuri possibili risvolti. E con chi tentare questo esercizio tutt’altro che fine a sé stesso, se non con un futurist come Mattiello? Da questo pattern psicologico del dolore su scala mondiale, cosa rimarrà? Ricercheremo più l’essenziale o il futile? E la sostenibilità, che peso avrà? Ma partiamo dal principio.
Dopo aver scoperto, sempre sulle pagine di questo magazine, insieme ad Ivan Ortenzi, di cosa si occupa un innovation evangelist, con Alberto Mattiello, capiamo il ruolo del futurist. La figura del futurist esiste da molto tempo, c’è solo una differenza tra gli attuali e i passati: i futurist del passato, parlo ad esempio di Alvin Toffler, Marshall McLuhan o John Naisbitt, erano in grado di formulare previsioni a 30/40 anni, cosa oggi, a mio parere, impossibile visto il tipo di accelerazione in cui siamo immersi. Nel mio piccolo cerco di concentrarmi sull’orizzonte dei 3-5 anni, ovvero cercando di capire cosa serve fare ora per non farsi trovare impreparati dall’evoluzione tecnologica nei prossimi anni.
L’ambito è quello delle previsioni strategiche. Poi il mondo dei futurist si divide in due, quello analitico, che si basa su dati, curve e statistiche e quello più creativo sul quale io lavoro maggiormente, avvalendomi di strumenti di creatività che, permettono di immaginare che cosa potrà accadere. Ad esempio, utilizzo quello che ho chiamato il “cono dell’innovazione” che consiste nel cercare di immaginare come una tecnologia o come, in questo caso un evento come il Covid-19, possa produrre estreme conseguenze, ad esempio, sul mercato, in un determinato settore, e così via, e questo immaginare, è una attività estremamente creativa.
Una volta poi individuati i possibili scenari, siano essi apocalittici o iperpositivi, inizia un lavoro di razionalizzazione. Il punto alla base di questa attività di immaginazione è pensare che non vi sia un unico futuro possibile ma molteplici. L’importante è individuare il tuo preferito per decidere come muoverti. In questi anni ho messo a punto decine di questi tool che mi permettono di aiutare le aziende a capire che tipo di business avrà senso tra 3 e 5 anni, e dunque in che tipo di processi investire.
Da docente di innovazione digitale all’Università Bocconi di Milano, a direttore del progetto ‘Future thinking’, acceleratore internazionale d’innovazione di Wunderman Thompson, a Miami. In florida sei arrivato per scelta o per caso?
Più per caso direi. A Milano, per anni, ho diretto un’agenzia di comunicazione con altri quattro soci. Nel 2007, abbiamo sviluppato un progetto dedicato all’innovazione per la candidatura di Milano ad Expo 2015. L’obiettivo era quello di immaginare cosa sarebbe stato innovativo nel 2015 per spettacolarizzare sia l’area expo che la città di Milano. La mia agenzia, in realtà, era già votata all’innovazione, ad esempio, nel 2001 ci eravamo inventati le corporate tv, uno strumento di comunicazione basato su video implementato 5 anni prima della nascita di YouTube.
Poi con un dei miei soci, ho deciso di andare negli Stati Uniti e di creare una società che supportasse le aziende manifatturiere nell’implementare comunicazione nei loro prodotti, quando all’epoca, parliamo del 2007, l’IoT non esisteva ancora e non si pensava di utilizzare nuovi materiali o di ragionare per ecosistemi di prodotto. E abbiamo deciso di sviluppare questa attività facendo base negli Usa, per essere più vicini al mondo dell’innovazione. È stata una avventura divertente e anche avvincente ma anche molto difficile visto che nel 2008, con la crisi, non era certo un momento fortunato per chi investiva in innovazione. Io non avevo un prodotto da vendere ma dovevo spiegare come la tecnologia potesse cambiare un prodotto.
Per questo motivo ho imparato a realizzare conferenze e poter così ispirare le aziende e dire loro, “vi racconto un futuro meraviglioso fatto di cose che oggi nemmeno esistono e vi aiuto ad immaginare il vostro prodotto del futuro”. Miami è nata così. Avendo poi l’agenzia basata a Milano, per una questione di fuso orario, la costa scelta non poteva che essere quella est, oltre al fatto che, per una startup, Miami continua ad essere molto meno costosa e con una qualità della vita molto alta rispetto a città come Boston o New York. Inoltre, è il luogo ideale per essere vicini all’innovazione. Se Amazon, ad esempio, inaugura un servizio nuovo in California e supera la prova, poi arriva direttamente a New York e Miami. Qui hai la possibilità di provare e testare tutto subito. E io faccio cosi, quando esce un nuovo prodotto o un nuovo servizio, lo compro e testo.
A che punto sono le aziende rispetto al loro sviluppo tecnologico?
La verità è che oggi siamo già al passo successivo rispetto alla digital transformation. Negli ultimi 20 anni abbiamo digitalizzato qualsiasi cosa, ora siamo all’artificial intelligence transformation, o cognitive transformation, ovvero, si studia come fare perché ciò che ho digitalizzato possa essere aumentato dall’intelligenza artificiale. Altra considerazione, il grado di maggior o minore avanzamento tecnologico, non dipende tanto della dimensione di una azienda.
È ovvio che le più grandi avranno più difficoltà perché si trovano a dover superare un’inerzia maggiore ma è anche vero che abbiamo numerosi esempi di grandi realtà dallo spiccato sviluppo tecnologico. All’inizio di quest’anno, al CES di Las Vegas, che negli anni da fiera dedicata all’elettronica di consumo è diventato l’appuntamento con l’innovazione tra i più importanti al mondo, L’Oréal e P&G hanno presentato una serie di prodotti innovativi pronti per essere inseriti nel mercato sviluppati con start up da loro incubate e sono il risultato di 5,6 anni di sperimentazione, prove e prototipi. Tutto questo in un mercato, come il loro, in cui di competitor ce ne sono davvero molti.
Ed è qui che si vede chi ha investito in un make up di innovazione fatto solo di apparenza e chi, al contrario, ha davvero investito per reimmaginare il modo di fare le cose. Ovviamente saper fare innovazione è certamente un fatto culturale ma ci sono certe situazioni che possono accelerare questo processo. Prendiamo questa emergenza del Covid-19. Le aziende si sono trovate da un giorno all’altro a dover accelerare sul fronte delle tecnologie, diventare digitali per sopravvivere. Non ci sono piani B, non è più possibile aspettare. In una situazione come questa, dove a bruciare le barche per scappare non c’è il Conquistador Cortes ma la contingenza, conquisti o non sopravvivi: questi sono momenti che portano inevitabilmente ad una accelerazione.
A proposito di coronavirus, quali tecnologie possono aiutare le aziende a superare l’emergenza?
L’attuale guerra contro il coronavirus vede per la prima volta in utilizzo molte nuove armi tecnologiche sviluppate in questo decennio. I supercomputer di tutto il mondo (es. Excalate, Google’s DeepMind, IBM summit…) utilizzano algoritmi di machine learning per scovare vaccini e cure che possano bloccare il virus. La robotica è in utilizzo, anche se in modo ancora sperimentale, su diversi fronti: dal gestire il più possibile da remoto i pazienti positivi per evitare inutili rischi di contagio, al disinfettare gli ambienti ospedalieri (Germ kill robot, Telehealth robots, Delivery Robot for medication).
Il mondo dell’IoT e della telematica è utilizzato per poter monitorare in remoto i pazienti in tempo reale anche in strutture sempre più affollate e sotto stress. Poi, ci sono i droni che sono stati testati per spostare medicinali e supportare la logistica di ultimo miglio per evitare zone di contatto umano in aree di forte contagio. Materiali tecnologici e smart di vario tipo sono in fase di test per la creazione di divise, mascherine ma soprattutto si è scatenato il mondo dell’open innovation e dei Fab Lab che oggi si ritrovano a fare davvero la differenza. Ormai noto è il caso della startup Isinnova che ha trasformato una maschera da sub regolarmente in vendita da Decathlon stampando in 3d alcuni componenti per creare delle maschere C-PAP a supporto della ventilazione assistita negli ospedali e sopperire alla mancanza attuale di questi device.
Per quanto riguarda le aziende sappiamo che in questo momento si trovano a dover gestire diversi problemi: sicurezza, approvvigionamento, logistica, reperibilità, ripartenza dopo la chiusura, gestione degli impianti produttivi e stimolazione della domanda. È banale dire che tutte le tecnologie che permettono di spostare in virtuale attività di collaborazione e controllo diventino una priorità per tutti. Dai software di collaborazione remota alle tecnologie di monitorizzazione, come i digital twins, diventano strategiche in una evoluzione che ci costringerà a fare i conti con questo scenario ancora a lungo. Ma il punto centrale della ripartenza sarà chiederci come, in un mondo ridisegnato dalla tecnologia di oggi, avrà senso ricostruire le basi stesse delle aziende, mettendo in discussione le catene del valore e trasferendo online tutte le attività che non solo non richiedono la presenza fisica ma che dal virtuale ne uscirebbero amplificate.
Come entra l’innovazione in azienda?
Certamente il semplice fatto che esisti una tecnologia, di per sé non basta. Non è sufficiente avere una visione per creare nuove culture, devi spostare nel futuro l’organizzazione intera. Le persone devono essere ispirate e a quel punto, con un effetto a valanga, si ingenerano i comportamenti positivi. Infondo, l’essere umano è sempre alla ricerca di efficienza. Finché l’innovazione non diventa conveniente, è molto difficile introdurla per imposizione senza un commitment generalizzato.
Alberto Mattiello è un futurist, autore, imprenditore e keynote speaker. Vive a Miami Beach, in Florida. Autore di “Mind The Change” (2017), “Marketing Thinking” (2017) e “Marketing Psychology Behind Growth” (2018). È curatore di “The Future Of Management” (2019) una serie in collaborazione con MIT Sloan Management Review. È un esperto di innovazione tecnologica e di business, relatore internazionale con oltre 150 eventi in oltre 15 paesi.È mentore presso aziende e università, tra cui l’Imperial College Of London e l’Università Bocconi di Milano. Membro del Comitato Scientifico di Piccola Industria Confindustria, dal 2013 guida il Future Thinking, un hub internazionale e acceleratore di innovazione di Wunderman-Thompson. Nel 2018 ha co-fondato Eitherland. È stato invitato a condividere la sua visione sul futuro del lavoro durante l’evento TED X. Ha co-fondato la creativa agenzia italiana LabNext, che la rivista Wired ha definito “The Italian Think Tank” per il suo lavoro pionieristico in e-learning, strategie basate su video e brand entertainment.