Il report Powering Down Corruption invita le aziende a visitare le miniere da cui si riforniscono
Tra le materie prime che stanno vedendo una crescita significativa della domanda e, di conseguenza del prezzo, c’è il cobalto, un elemento essenziale nella produzione delle batterie per le auto elettriche e dei dispositivi elettronici sempre più diffusi come gli smartphone.
La più grande vena di cobalto al mondo si trova nella Repubblica Democratica del Congo, da cui provengono due terzi del rifornimento globale di questa materia prima. In seguito a un rapporto del 2016 di Amnesty International, che denunciava condizioni di lavoro illegittime e impiego di bambini nelle miniere, le aziende che producono tecnologia hanno incominciato a interessarsi alla sostenibilità etica dei propri fornitori.
Un’organizzazione non-profit per i diritti umani, The Enough Project, ha sollecitato le aziende che acquistano cobalto a visitare le miniere da cui si riforniscono e a obbligare i fornitori a pubblicare i dettagli dei contratti, come riportato da Supply Management. Nel report intitolato Powering Down Corruption, ha stilato cinque recommendations in base a 107 interviste con vari attori dell’industria estrattiva nell’ex regione del Katanga in Congo.
Tra queste raccomandazioni, si chiede alle aziende di visitare le miniere per verificare la compliance e di usare il proprio peso contrattuale nella supply chain per aumentare la trasparenza negli accordi di fornitura, oltre che di richiedere ai produttori e fornitori di comunicare quali minerali sono estratti in miniere artigianali sotto il loro possesso o concessione. Benché la maggioranza del cobalto congolese sia estratto tramite operazioni industriali, il reddito della maggior parte dei minatori e delle loro famiglie dipende da miniere artigianali. Secondo un report del 2017 del Center for Effective Global Action (CEGA) dell’Università della California, il 90% dei minatori congolesi (circa 150mila) sono impiegati in miniere artigianali o su piccola scala, dove i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori sono diffusi, così come l’impiego di minori.
I rapporti poco trasparenti tra miniere industriali e artigianali rende difficile garantire l’origine del cobalto, così che le aziende rischiano di acquistare involontariamente cobalto estratto tramite lavoro minorile, nonostante provvedimenti come quello di Apple, che nel marzo 2017 ha annunciato di aver eliminato dalla propria supply chain il cobalto estratto artigianalmente in attesa di poter garantire controlli più sicuri, come racconta in questo articolo il Washington Post.
Nel corso degli anni, l’industria del cobalto si è legata alla politica della Repubblica Democratica del Congo. Bloomberg approfondisce la vicenda di Glencore, che dopo aver prosperato grazie all’estrazione di rame ha investito in un’area chiamata Mutanda, che produce più cobalto di qualsiasi altra miniera. A luglio, però, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha preso in esame una serie di documenti per verificarne la compliance con le leggi americane sulla corruzione straniera e il riciclaggio di denaro.
Un aiuto per aumentare la visibilità lungo la supply chain per produttori e consumatori potrebbe venire dalla tecnologia blockchain. Il registro digitale distribuito, infatti, sta incominciando a venir sperimentato in diversi ambiti, dalla gestione dei documenti nel settore delle spedizioni commerciali alla tracciabilità del cibo dal produttore al consumatore. Il vantaggio risiede nell’immutabilità dei dati contenuti nei blocchi, che non possono essere contraffatti, oltre che nella simultaneità del processo di verifica.
Il campo di applicazione di blockchain si estende però anche ad altri settori, come quello minerario. Dopo il progetto Better Cobalt, cui hanno aderito aziende che lavorano nell’industria dell’estrazione di cobalto, il fondo di investimento Hermes ha chiesto ai produttori di automobili di adottare la tecnologia blockchain per provare l’origine del cobalto usato nelle proprie batterie, riporta il Financial Times.
Per fare fronte alla crescita della domanda di questo materiale, alcune aziende stanno considerando l’estrazione sottomarina: nei fondali degli oceani, infatti, sono depositate enormi quantità di oro, rame, cobalto, nichel, manganese e altri minerali, molto più concentrati rispetto a quelli che giacciono sotto la crosta terrestre e facili da estrarre dragando il fondale, come si legge su La Stampa.
Gli scienziati, però, hanno sollevato preoccupazioni per la salvaguardia dell’ambiente, perché il cosiddetto “deep sea mining” rischia di danneggiare un ecosistema di cui sappiamo poco e che ha tempi di ripristino molto lenti, tanto che il Parlamento europeo ha chiesto una moratoria per le miniere sottomarine finché non verranno compresi meglio gli impatti sui fondali marini.
Un team di scienziati del Critical Materials Institute e di Ames Laboratory ha inventato un processo di riciclo dei magneti: dissolvendoli in soluzioni a base di acqua è possibile recuperare minerali rari con un grado di purezza superiore al 99%. Anche il cobalto viene recuperato da rifiuti magnetici e promette di poter essere riutilizzato per nuove batterie.
Il problema delle materie prime necessarie al crescente sviluppo tecnologico rimane quindi aperto, sia per quanto riguarda la disponibilità finita delle risorse minerarie, sia perché le aziende sono sempre più chiamate a rispondere delle condizioni di lavoro e degli impatti ambientali dei propri fornitori.