Per quanto riguarda la resilienza della supply chain negli ultimi anni si sta parlando ampiamente di re-shoring e on-shoring. Con il cambiare dei tempi molte aziende, medie e grandi soprattutto, hanno intrapreso vie alternative alla delocalizzazione, riscoprendo i benefici di tirare i remi in barca e tornare “a casa”.

Nella ubiqua crisi multiforme che stiamo vivendo, assistiamo a una scarsità di approvvigionamenti causati dai blocchi dei porti e dalle enormi distanze che le merci devono percorrere lungo choke points a volte imprevedibili o vicini a paesi ostili.

I prodotti maggiormente colpiti della catena sono solo in parte prodotti finiti o prodotti semilavorati ma in larga parte materie prime fondamentali minacciata da nuove tensioni geopolitiche. Proprio per questo, ultimamente si sente sempre più spesso parlare anche di friend-shoring. E se ne è parlato anche al recente Supply Chain Ministerial Forum.

Il termine

Il termine friend-shoring non è altro che un neologismo che prende le mosse dai più datati re-shoring e on-shoring. Si tratta, in breve, di rilocalizzare alcune fasi della produzione in paesi amici, che condividono il sistema di valori – o di interessi – e l’allineamento geopolitico del paese di riferimento. Alcune aziende americane, Apple compresa, da qualche tempo stanno rilocalizzando alcuni passaggi della propria filiera dalla Cina verso paesi come Taiwan, India e Vietnam più vicini agli interessi statunitensi.

Le ragioni

A causa dell’impossibilità dell’affidarsi troppo spesso a on-shoring e re-shoring per l’assenza di infrastrutture adatte a un certo tipo di produzione, sta sempre più prendendo piede la svolta verso il friend-shoring. Una via che è stata suggerita anche dalla segretaria del Tesoro americano Janet Yellen all’ultimo vertice del G20. L’obiettivo è ridurre al minimo l’esposizione del sistema produttivo alle rappresaglie economiche di paesi rivali e spesso avvicinare la produzione al territorio nazionale.

Gli Stati Uniti e 17 loro alleati hanno deciso di lavorare insieme per migliorare e diversificare le catene di approvvigionamento globali per evitare le carenze che hanno afflitto l’economia durante la pandemia e che stanno colpendo diversi paesi a causa della guerra in Ucraina. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken e la Segretaria al Commercio Gina Raimondo hanno recentemente co-ospitato il Supply Chain Ministerial Forum proprio per discutere di questi temi, senza la Cina. Uno dei temi è stato proprio quello di aumentare il friend-shoring e spostare la produzione di materie prime e prodotti chiave in paesi amici.

Gli obiettivi includono aumentare la trasparenza delle informazioni commerciali, la diversificazione delle fonti, l’aumento della sicurezza e della sostenibilità delle catene di approvvigionamento. All’incontro hanno partecipato funzionari provenienti da Australia, Brasile, Canada, Repubblica Democratica del Congo, Unione Europea, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Corea del Sud, Singapore, Spagna e Regno Unito.

I dubbi su efficacia e sostenibilità

In un momento di rimessa in discussione dei principi della globalizzazione e di forsi tensioni globali cercare alternative è necessario. Tuttavia, secondo Raghuram G. Rajan se da un lato il friend-shoring potrebbe apportare dei vantaggi a questi paesi, dall’altro rischia di produrre effetti indesiderati peggiorativi sul commercio internazionale globale.

Il professore della University of Chicago Boot School of Business afferma infatti che una politica di friend-shoring avrebbe effetti devastanti poiché significherebbe commerciare con paesi che hanno valori e istituzioni simili, e, in pratica, negoziare solo con paesi a livelli di sviluppo simili eliminando il vantaggio comparato riguardante la produzione in paesi con diversi livelli di sviluppo e i relativi benefici. «Friend shoring would tend to exclude the poor countries that most need global trade in order to become richer and more democratic», spiega Rajan.

Una scelta, dettata anche dalle recenti tensioni geopolitiche, che nel lungo periodo potrebbe portare a un acuirsi delle diseguaglianze e minare la sostenibilità dell’approvvigionamento globale.