Il prezzo maggiorato dovuto alle certificazioni e alle pratiche responsabili è l’ostacolo principale

I maggiori produttori al mondo di olio di palma lamentano il fatto che, a fronte dei loro sforzi per produrre il contestato prodotto in modo più sostenibile, i consumatori non sono disposti a pagare di più per una merce amica dell’ambiente. Questo il punto di partenza dell’articolo di Anuradha Raghu su Bloomberg dedicato all’eccesso di disponibilità della versione sostenibile di questo discusso prodotto alimentare.

La produzione di olio di palma sostenibile ha raggiunto un record di 13.6 milioni di tonnellate annue, circa il 20% del prodotto globale, secondo la Roundtable on sustainable palm oil (Rspo), l’ente industriale che certifica questo bene. Ma soltanto la metà della produzione di olio di palma sostenibile certificato (Cspo) viene venduta come tale: questo perché è più costoso da produrre e quasi nessuno vuole pagare un extra, afferma Sime Darby Plantation Bhd., il maggior coltivatore per superficie.

L’olio di palma è sempre più spesso al centro di controversie, in particolare nei paesi occidentali, dopo che le immagini della deforestazione e della morte degli orangotango hanno reso il prodotto sgradito all’opinione pubblica. I produttori, da parte loro, replicano che i consumatori non vogliono allineare il portafoglio alle parole.

L’olio di palma certificato in genere è venduto a un prezzo maggiorato di circa 30 dollari a tonnellata rispetto a quello non certificato, anche se la cifra può variare in base ai volumi e alla negoziazione tra acquirenti e venditori. Ottenere la certificazione costa ai coltivatori dagli 8 ai 12 dollari a tonnellata, a cui si devono sommare altre spese come gli audit, la logistica e le valutazioni ambientali, afferma Sime Darby, il più grande produttore di Cspo.

L’azienda ha dichiarato che riesce a vendere solo il 50% della sua produzione certificata a un prezzo extra, mentre il resto viene scaricato insieme all’olio non certificato senza ottenere nessun valore aggiunto. Le aziende devono vendere il loro Cspo sottocosto, e preferiscono farlo piuttosto che accumulare riserve, afferma Oscar Tjakra, senior analyst per i cereali e i semi oleosi di Rabobank International.

«Alcune aziende sono già in perdita a causa degli alti costi di produzione e finanziamento, in aggiunta ai costi extra per la certificazione sostenibile», ha affermato Tjakra. «Considerando la situazione di fornitura eccessiva nel mercato, le aziende devono comunque vendere il loro olio di palma dal momento che i serbatoi di stoccaggio sono pieni».

La Mondelez International ha dichiarato di star lavorando con i fornitori per assicurarsi che il proprio olio di palma sia completamente tracciabile e alla fine del 2017 circa il 96% era tracciabile fino al frantoio. Circa metà dell’olio di palma acquistato da Nestlé nel 2017 era tracciabile fino alla piantagione. L’azienda afferma che comprare la varietà certificata è un modo per spingere il settore verso un futuro sostenibile e ha l’obiettivo di usare al 100% olio certificato Rspo entro il 2023. Tuttavia, i buyer hanno difficoltà a procurarsi l’olio «in regioni particolari a causa della lontananza da Cspo disponibile», ha dichiarato Nestlé.

Il coinvolgimento del mercato e la diffusione di Cspo sarà il fattore chiave per spronare l’adozione di standard di sostenibilità, ha affermato la Rspo. Mentre i rivenditori stanno comprando quasi tutti olio certificato, le industrie di trasformazione, del commercio e di manifattura di beni di consumo hanno ancora un ampio margine di miglioramento.

Secondo Greenpeace, la produzione sostenibile costa di più e le aziende di beni di consumo dovrebbero pagare per sostenerla e incoraggiare un cambiamento nel settore. «La soluzione è che i grossi marchi comprino solo olio di palma da coltivatori sostenibili che proteggono le foreste pluviali», afferma Diana Ruiz, senior palm oil campaigner di Greenpeace negli Stati Uniti.