Il 13 gennaio si sono tenute le elezioni presidenziali a Taiwan, paese tra i più importanti in un periodo di rivoluzione tecnologica ed ecologica soprattutto per la sua centralità nell’economia dei semiconduttori. Dalle urne è uscito vincitore Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp), il candidato più critico nei confronti della Cina. Quali potranno essere le ripercussioni per le supply chain?
La centralità nella produzione dei semiconduttori
Negli ultimi dieci anni Taiwan è diventata una parte indispensabile della catena di fornitura globale dei microchip utilizzati nelle auto elettriche, negli smartphone e non solo. Taiwan domina la produzione di quelli più avanzati con oltre il 90% della capacità produttiva globale.
Meno del 10% della produzione mondiale di semiconduttori avviene invece Europa, che è limitata ai chip più grandi (da 22 nanometri in su). Solo due aziende dell’Asia orientale, TSMC a Taiwan e Samsung in Corea del Sud, sono in grado di produrre chip all’avanguardia (da 2 a 7 nanometri), mentre le attrezzature necessarie per tale produzione sono prodotte esclusivamente in Europa, da ASML nei Paesi Bassi.
Una questione di filiera
La maggior parte dei produttori di chip europei esternalizza la fabbricazione a fonderie esterne, con i test, l’assemblaggio e l’imballaggio dei chip che si verificano tradizionalmente nell’Asia orientale. I chipmaker europei più noti, come NXP nei Paesi Bassi, Infineon e Bosch Semiconductors in Germania, e STMicroelectronics in Francia e Italia, producono i chip più grandi per i settori automobilistico e industriale, ma esternalizzano anche parte della loro produzione a produttori stranieri, come TSMC a Taiwan.
Mentre l’Europa dipende dall’Asia per la produzione e l’assemblaggio di chip avanzati, i produttori europei fanno affidamento sulla proprietà intellettuale americana sotto forma di strumenti di progettazione di chip di proprietà degli Stati Uniti. Senza i macchinari, i pezzi di ricambio e il know-how estero però le fonderie di semiconduttori taiwanesi non sarebbero autosufficienti. Se la Cina prendesse il controllo di Taiwan probabilmente non potremmo avere quei prodotti tecnologici per un po’ di tempo, ma senza quella filiera dei paesi occidentali praticamente le fonderie di semiconduttori sarebbero inutili.
Cosa ci dice il voto sul futuro dell’isola
Lai Ching-te, candidato del Partito progressista democratico (Dpp) al potere da otto anni con Tsai Ing-wen e su posizioni maggiormente indipendentiste, ha vinto le elezioni del 13 gennaio. Lai ha sconfitto il Kuomintang (Kmt) più filo-cinese e l’ambiguo Taiwan people’s party (Tpp) ma il suo partito non ha raggiunto la maggioranza nel parlamento taiwanese, lo Yuan legislativo, e ciò renderà probabilmente il suo governo instabile e incline al compromesso.
Dal punto di vista internazionale gli Stati Uniti sono soddisfatti del risultato maggiormente filo-occidentale, mentre la Cina sottolinea nelle sue dichiarazioni come sia fuori discussione una deriva indipendentista poiché Taiwan viene considerata da Pechino una provincia ribelle che, pur avendo oggi una sovranità de facto, in futuro tornerà sotto la Repubblica popolare cinese. Mettendo da parte quella che è la storia travagliata dell’isola, tra dominazioni coloniali e sospensione tra Cina e Stati Uniti, si può dire oggi che nessuno abbia interesse nel cambiare lo status quo a Taipei. Questo soprattutto per motivi commerciali, in un periodo che vede già forti instabilità nel canale di Panama e a Bab el Mandeb. Soprattutto aumentare le tensioni non è nell’interesse degli Stati Uniti.
Quali ripercussioni e quali costi a un cambio dello status quo
A Taipei il settore dei semiconduttori riveste una grande importanza. Per questa produzione l’isola è fondamentale nella supply chain globale. Una posizione che non è disposta a cedere, come dimostrano gli investimenti delle aziende di Taiwan soprattutto a livello locale. Un’economia fatta di interconnessioni e interdipendenze. Un articolo di The Diplomat spiega come un aumento delle tensioni tra Cina e Taiwan – possibile a seguito della vittoria di quello che Pechino considerava il candidato maggiormente separatista e meno incline al dialogo – comporterebbe una massiccia interruzione delle catene di approvvigionamento globali.
Anche se si potrebbe pensare che lo Stretto di Taiwan sia relativamente poco importante, c’è solo un’altra via d’acqua che le navi possono percorrere da o verso l’importante Mar cinese meridionale: lo Stretto di Luzon. Ciò aggiungerebbe qualche giorno in più al tempo di viaggio oceanico e lo stretto di Luzon è spesso agitato durante la stagione dei tifoni che rende rischioso viaggiare. La maggior parte delle navi finisce per utilizzare lo Stretto di Taiwan nel tragitto dalla Cina e dal Giappone all’Europa, e persino dagli Stati Uniti all’Oceania e alle nazioni asiatiche. Questo tratto di mare è centrale quindi sia per l’interscambio tra Cina, Taiwan, Stati Uniti ed Europa che per il commercio globale. Di conseguenza, nuove tensioni assesterebbero un altro duro colpo allo stato della globalizzazione.